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Da Salvini agli Agnelli: il Nord non perde il vizio di barare ma il Sud non ci sta

La storia di parte di un’Italia mai unita non ha insegnato nulla e a distanza di 162 anni da quell’annessione, si continua sull’onda dell’eterno tentativo di una parte del Paese di portare avanti la teoria della “locomotiva”. Il Nord avanti, il Sud a ruota. Il Settentrione a fare la voce grossa, il Meridione a pietire assistenzialismo, ad arrancare al traino, nell’eterna condanna del dover vivere di briciole e luce riflessa.

Il peccato originale è sempre quello che parte dalla narrazione farlocca e stereotipata dell’Italia. A partire dal racconto di un Risorgimento che nei libri di storia viene ancora favoleggiato ed esaltato mentre, nella realtà, fu molto distante dal necessario processo democratico ad equo beneficio di una comune identità di diversi popoli, ognuno con la propria da rispettare, ma fu purtroppo costruzione politica fondata sulla prepotenza e la violenza e sull’arte della diplomazia, condotta da un’élite che fece la “rivoluzione dei ricchi” mettendo il Nord contro il Sud, non insieme al Sud.

Un secolo e mezzo dopo l’Italia è quella in cui il Nord ogni anno trasferisce 45 miliardi al Sud, passando per Roma ed il Sud a sua volta trasferisce al Nord 70 miliardi acquistando beni e servizi settentrionali. Il Sud deposita 700 miliardi negli sportelli delle banche settentrionali operanti nel Meridione, con i quali si coprono i finanziamenti elargiti alle aziende del Nord. Il Sud spende ogni anno circa 20 miliardi per istruire i propri giovani che vanno a lavorare al Nord. Ed il Sud spende ogni anno 2 miliardi per l’emigrazione sanitaria di almeno 800 mila persone negli ospedali del Nord, soldi che poi rimangono sul territorio in cui i meridionali vanno a curarsi. E Roma sbilancia circa 47 miliardi all’anno di spesa pubblica a Nord, per un totale di 840 miliardi sottratti al Sud dal 2000 al 2017. Numeri, non chiacchiere.

Negli Anni Novanta abbiamo assistito all’Operazione Padania della Lega di Bossi che negli Anni Novanta aveva tentato non troppo velatamente di perseguire la strategia politica di dividere il Paese, e che aveva fatto riaffiorare quella contrapposizione soffiando sul fuoco di un’unità che non si mai realmente compiuta. Ora la Lega convertitasi a partito nazionale ritrova la sua vocazione nordista e ci riprova con l’Autonomia Differenziata che rischia di condannare definitivamente l’Italia ad un divario incolmabile Nord-Sud. Far valere il principio della spesa storica e non applicare i Livelli Essenziali di Prestazione vuol dire ammazzare il Mezzogiorno. “Se il Veneto o la Lombardia andranno meglio ne avrà beneficio poi anche il Sud”, rieccola la teoria della “locomotiva”.

Non è casuale il momento in cui la Lega torna all’assalto con una riforma che vorrebbe dividere il Paese in tribù e lo fa mentre il partito del Nord è crollato dal 30% di quattro anni fa all’8%, ha un disperato bisogno di rilanciarsi agli occhi dei suoi elettori/imprenditori e riapre la questione senza comprendere (o forse lo sa benissimo) che il Sud potrebbe e dovrebbe camminare sulle proprie gambe, dotandolo di porti e infrastrutture e guardando alle opportunità di sviluppo economico che ne deriverebbero nel perimetro geopolitico del Mediterraneo dai rapporti con l’Africa e il Medio Oriente.

Barare non serve, non paga e alla lunga porta alla rovina per chi fa il furbo. Lo insegnano le vicende dell’industria del pallone – quarta costola economica del Paese – dove il Sud soffocato dal dominio delle potenze del Nord ha portato a casa in 117 anni la miseria di 8 scudetti eppure mai come in questo momento i rapporti di forza si sono ribaltati. La Juventus della famiglia Agnelli vince 9 scudetti di fila e ora si prepara ad una stangata che forse la riporterà in Serie B. Gli eredi di Gianni Agnelli hanno persino speso oltre 100 milioni di euro per dominare non solo l’Italia ma l’Europa con l’acquisto di Cristiano Ronaldo per poi crollare sotto i colpi di quella forzatura e della presunzione di un modello societario che nel 2021-2022 ha chiuso un bilancio in perdita di 250 milioni, dopo che Exor e soci avevano ricapitalizzato il club per 700 milioni in due tranche (300 e 400), senza contare che gli apporti di partner come Jeep, gruppo Exor, erano lievitati da 17 a 45 milioni. Tutto il resto è cronaca di questi giorni: uno scandalo fatto di intercettazioni, plusvalenze farlocche, bilanci gonfiati e un club che, 17 anni dopo Calciopoli, rivede la Serie B, ha fallito il suo progetto di egemonia e pure la sua “redenzione”, con una immagine ora definitivamente compromessa.

Ora nel Calcio italiano comanda Napoli e il Sud, con una squadra che dopo l’era Maradona era stata cancellata e umiliata dal palazzo, condannata al fallimento con un monte debitorio di gran lunga inferiore ai bilanci terrificanti di Juventus, Milan e Inter, che da tempo sono sull’orlo del disastro ma, con la connivenza del sistema-Paese, hanno continuato a spendere e dare ingaggi stratosferici. Il Napoli di De Laurentiis, nell’anno in cui aveva tagliato le spese e ridotto il monte ingaggi, invece si avvia a fare la storia – quella vera -, si lascia tutti alle spalle, dando spettacolo agli occhi del mondo con un modus operandi sano e lungimirante.

Sotto la Mole si disperano, ai piedi del Naviglio piangono, eccola la spallata senza precedenti all’asse Milano-Torino, con l’inattesa egemonia pallonara del Napoli che va ben al di là della ludica dimensione sportiva ed indica la via maestra da percorrere verso uno stravolgimento economico-finanziario che, a questo punto, deve insegnare qualcosa alla politica.

E’ un segnale inequivocabile di come fare impresa e come rilanciare il Paese. E’ una svolta che il governo italiano – anziché permettere porcherie come la rateizzazione di 890 milioni di euro per i debiti dei presidente di Serie A – dovrebbe raccogliere e cercare di tradurre in una visione finalmente unitaria e complementare dei territori, non continuando con il baro storico delle due Italie. Altro che la bestialità dell’autonomia differenziata.

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