HomePoliticaMa il comico Zelensky verrebbe votato a Taormina?

Ma il comico Zelensky verrebbe votato a Taormina?

La guerra in Ucraina sta mostrando al mondo le atrocità dell’invasione russa, la follia di Vladimir Putin ma anche il coraggio del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Un politico che sino a poco più di un mese fa era conosciuto soltanto dagli addetti ai lavori ma per la gran parte del mondo era uno sconosciuto, è diventato un simbolo di resistenza e un esempio di come si possa arrivare al potere partendo dal basso.

La realtà a volte supera la fantasia e in qualche circostanza lo fa in maniera a dir poco plateale e rocambolesca. Così il comico protagonista della serie tv “Servant of the people” (“Servitore del popolo”), nella quale interpretava un insegnante di scuola poi diventato presidente, alla fine è stato eletto presidente dell’Ucraina sul serio, nel 2019, con il 73% dei consensi.

Ideata, scritta, diretta e prodotta da Zelensky, Servant of the people risale al 2015: i 51 episodi che adesso vengono trasmessi in Italia da La7, sono – oggi più che mai – il potente manifesto mediatico di come nulla sia impossibile in politica ma soprattutto nella vita.

Lo scopo satirico della serie “Servitore del popolo” è quello di mettere alla berlina i favoritismi e l’asservimento alle alte cariche, che in questo caso sono rappresentate da un docente (di storia) salito al potere.

Ma dalle nostre parti Vasily Petrovyč Goloboroďko – questo il nome del suo personaggio in “Servitore del popolo” – verrebbe eletto? In un posto come Taormina quante chance avrebbe di essere votato un comico, un insegnante, insomma un Zelensky?

La nostra impressione è che, al netto delle favole, dei romanticismi e delle suggestioni del momento, le chance per Vasily Petrovyč Goloboroďko sarebbero pari allo zero.

Forse prenderebbe un pò di like sui social ma più probabilmente gliene direbbero di tutti i colori con una visione dialettale demolitoria: “stu stirratu”, “curtu ‘e male incavato”, “ma chi voli fari u maestru”, “stu barzillittaru” Non verrebbe preso in considerazione e in ogni caso i professionisti della politica si darebbero da fare per arginare la minaccia e neutralizzarla. Magari gli farebbero pure l’immancabile regalo della letterina anonima che in tempi di elezioni a Taormina non manca mai.

Perché Taormina è uno di quei posti che ama lo status quo e guarda al presente giocando a specchio con il passato, con diffidenza estrema del domani e di ogni forma di mutamento, ha sempre votato e scelto di dare le chiavi della città al “paesano” di turno che già conosce e che, in un modo o nell’altro, garantisce determinati equilibri e non li mette a rischio con la logica dello stravolgimento. A Taormina conta, e regna vita natural durante, comanda il pacchetto da 100-200 voti che passa da mariti, mogli, nipoti, cugini, zii e commari e compari vari. Numeri che ora si possono pure moltiplicare e allargano il perimetro dei consensi con il trucco degli apparentamenti legati alla legge elettorale e al voto di genere (che doveva diventare uno strumento per garantire le quote rosa e rispettare le donne ed invece le mortifica).

Taormina è uno di quei territori dove, al di là della crisi e dei tempi duri della pandemia e della guerra, si potrebbe vivere di rendita e con le gambe a cavallo, come d’altronde in tanti hanno fatto sino al 2020 anche se non lo ammetteranno mai. Si potrebbero dare lavoro e serenità alla gente, guardare al futuro con opportunità straordinarie, ma il cambiamento lo vogliono in pochi: a Taormina lo si invoca ma la verità è che del cambiamento si ha il terrore allo stato puro. Così ci si accontenta di “vivacchiare” alla meno peggio, si naviga a vista con l’orizzonte ciclico della stagione estiva, tra 4-5 mesi di affari e poi deserto e lamentele, in balia del cerchio magico di 20-30 persone che da qualche decennio fanno a turno il bello e cattivo tempo e decidono le sorti del paese, con poche eccezioni sul tema e che non bastano a cambiare la musica. E poi tutti a ruota, nel ruolo dei conviviali a scadenza, come lo yogurt, da coinvolgere e da mischiare ogni giorno, da caricare a molla per il voto e da scaricare il giorno dopo con un bacio in fronte.

Ecco perché Vasily Petrovyč Goloboroďko verrebbe visto come una mina vangante sgradita al sistema, non come una risorsa per provare a cambiare. D’altronde la storia insegna che dalle nostre parti ci si lamenta sempre (prima lo si faceva nelle piazze e ora sui social), si arringa e si va in battaglia per 4 anni ed altri 364 giorni, con la lingua lunga e con la tastiera “ammulata” come la lama di un coltello, salvo poi calarsi le brache, rimangiarsi tutto nel segreto dell’urna e farsi sodomizzare dal politico di turno. Basta e avanza per giurare fedeltà ai soliti podestà di quartiere la promessa – a scadenza come lo yogurt – di qualche mese di lavoro ai parcheggi piuttosto che la concessione di quattro tavolini in più nel proprio locale.

Se non fosse che c’è di mezzo una guerra vera e delle atrocità immani come quelle che stiamo vedendo in Ucraina, verrebbe da dire, insomma, che lo Zelensky di turno qui non avrebbe nessuna chance di coronare la sua favola, perché nella sua terra si fa comunità, si lotta per un fine comune e lo si fa eroicamente: noi siamo la terra dei gattopardi e la patria dell'”armiamoci e partite”.

Gli idealismi sono belli ma da queste parti la gente – anziché per il cambiamento vero – fa la guerra per un pezzo di suolo pubblico e per sentirsi un passo più avanti del paesano della porta accanto. Qui si cambia tutto (a chiacchiere) per non cambiare niente. Manca il coraggio di cambiare la mentalità prima ancora che i padroni del vapore: e il coraggio se non ce l’hai non lo puoi comprare al supermercato.

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