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A Taormina la politica si è fermata al sorriso irridente di Fabio D’Urso

TAORMINA – Sono passati 7 anni e mezzo da quando se n’è andato Fabio D’Urso. Da quel 17 novembre 2014 è passato tanto tempo, alcuni lo hanno già dimenticato, altri lo ricordano con affetto e nostalgia. Aveva soli 43 anni quando è andato incontro ad un cinico destino e si è incamminato verso l’eternità. Era un giovane messinese che non è mai stato particolarmente amato a Taormina, ma che a Taormina ha dimostrato un’abilità politica e un’intelligenza fuori dal comune. Il tempo rivede e rivaluta cose e persone e si può dire che a Taormina la politica si sia fermata alla stagione di Fabio D’Urso. Un paradosso che forse oggi farà sorridere lassù D’Urso, gli strapperà un inevitabile ghigno di compiacimento e gli farà pensare che da quel 2014 ad ora l’orologio si è fermato e non è cambiato niente a Taormina. Stesso copione, stessi interpreti: lo abbiamo detto e scritto.

D’Urso lo hanno marchiato sin dal suo arrivo a Taormina come “il cognato di Peppino Buzzanca” e quando a Taormina ti mettono il bollo, poi vige vita natural durante la regola ferrea di quel bollino. Di sbagli ne ha fatti nel tempo in cui ha vissuto ed amministrato nella Perla dello Ionio, un’epoca caratterizzata da alti e bassi, successi e vicissitudini, in un arco temporale che si è collocato dal 2002 sino poi alla triste e prematura scomparsa 12 anni più tardi. D’Urso fu determinante, da protagonista, nei successi alle elezioni del 2002 di Aurelio Turiano, poi di Carmelantonio D’Agostino nel 2006 e di Mauro Passalacqua nel 2008. In tutte queste occasioni fu poi assessore del Comune di Taormina. Nel 2013 arrivò per lui la sconfitta nella tornata che portò all’elezione di Eligio Giardina, ma quella sconfitta fu un atto di godimento per frustrazione, voluto dalla politica taorminese che, pur di non ritrovarsi D’Urso ancora al governo della città pretese di isolarlo e metterlo in un angolo, anche quando Giardina gli aveva aperto le porte. A Giardina fu imposto di tenere fuori “l’indesiderato” assessore messinese, “colpevole” di dover restare fermo per un giro per essersi preso troppo a lungo lo scena del palazzo taorminese. Quel ragazzo che aveva conosciuto Taormina nel periodo del ToutVa e nel 1997 ci era andato a vivere e lavorare, era diventato una presenza sin troppo ingombrante nell’agone politico locale. Si era iniziato a comprendere che il “Tizio cognato di Caio” era ormai un discorso riduttivo e Fabio D’Urso lo aveva fatto vedere sul campo di saper essere determinante da solo, in giovane età, con la capacità di non farsi piegare dal clima ostile e di prevalere anzi anche su alcuni “lupi” locali.

Dentro quel momento, che poi purtroppo divenne anche l’epilogo della parabola politica e poi della vita stessa di D’Urso, c’è in fondo il senso di quello che ha lasciato e c’è il senso della lunga e profonda crisi della politica taorminese.

La storia non lo ricorderà come il migliore degli amministratori del Comune di Taormina e non potrebbe essere diversamente nel ventennio in cui la città è finita al dissesto e in cui D’Urso è stato per tre volte assessore al Bilancio. Ma sarebbe riduttivo, ingeneroso e anche meschino fare un’equazione tra il dissesto e un assessore, in un contesto in cui la firma sul default è di diverse Amministrazioni e tanti attori.

Le polemiche non servono e la caccia ai colpevoli è un inutile esercizio in cui ancora oggi si perdono troppi politici a Taormina. “Le colpe sono di tutti, io però non mi nascondo”, diceva Fabio D’Urso, uno che ci metteva la faccia. Uno che ha dimostrato un’intelligenza e una capacità di reggere alle pressioni e incassare critiche che alla gran parte dei politici taorminesi del ventennio è mancata e manca ancora oggi. Ha avuto la furbizia di inventare candidature a sindaco, di costruire alleanze che sembravano impossibili ma soprattutto ha fatto quello che a nessuno negli Anni Duemila qui è riuscito: è stato capace di farsi scivolare addosso accuse e antipatie, veleni, fango e tutto il carico che Taormina e la politica taorminese gli hanno riversato addosso per anni. A Taormina tutto è un fatto personale, rapporti di anni finiscono in una parola, in una frase, persino nel taglio di un articolo di giornale, scatta immediato il retro-pensiero demenziale del “tu ce l’hai con me”, “ma che ti ho fatto”, “non è vero”, e altre idiozie varie del campionario di quartiere di una bellissima città che accoglie turisti da tutto il mondo ma che poi ragiona da piccolo “paese”.

D’Urso non si è mai piegato su quel piano inclinato, non si è scomposto di fronte a niente e nessuno, replicava a chiunque sempre allo stesso modo: col sorriso. Non conosceva rancori. Ti rideva e ti sfotteva, usava l’arma del sorriso, quasi ad irriderti ma con gentilezza. Il suo sorriso era un modo per far capire agli altri che delle critiche non gliene importava e che la vita, in fondo, è troppo breve per perdersi nella giostra intossicante dell’astio. Aveva quella leggerezza di pensiero che oggi latita in una politica taorminese che già di per sé si è dimostrata modesta, non sa ammettere i propri limiti e nemmeno trarne giovamento per fare qualcosa di buono, arroccata nella convinzione di comodo che tutto vada bene e il resto è una rappresentazione inesatta. Ma peggio ancora a Taormina dentro e fuori dal palazzo si vive di simpatie e antipatie, si intrecciano e si interrompono rapporti e alleanze sulla premessa di questioni personali. Ed il grande freno che tiene la città ferma sui suoi passi, non la fa crescere e non le consente di costruirsi un’altra prospettiva per il futuro.

Lo aveva capito bene come funzionano le cose da queste parti D’Urso ma non si è uniformato a quel modo di fare e di essere che non gli apparteneva. E’ andato via in silenzio, troppo in fretta, ma lo ha fatto lasciando un segno importante e l’eredità di una lezione ai naviganti: un carico di umanità e un’intelligenza che nei modi e nei comportamenti vanno considerati e dovrebbero fare riflettere.

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