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Taormina, un patrimonio in affitto

TAORMINA – Con delibera n.7 del 19/02/2024 il Consiglio Comunale di Taormina, con 10 voti a favore e 3 astenuti, ha approvato il regolamento per la concessione in uso temporaneo dei palazzi storici, spazi e sale comunali. L’argomento è un evergreen nella storia dei beni culturali italiani, risolto a Taormina con un bel fritto misto in salsa nostrana dal retrogusto esotico. La decantata gestione “in house” del patrimonio ridotta ad un contratto di locazione. Per chi pensava che stavolta finalmente poteva essere il momento di una svolta, immaginando una pioggia di fondi europei per rimettere in pista un patrimonio decadente, come mostrato durante ridenti dirette sui social, adesso è il momento di ricredersi. Guardare in faccia la realtà. E i fatti sono sempre più ostinati di tutto il resto.

Nel business della cultura, che dovrebbe servire a rimpinguare le casse comunali, rientrano tutta una serie di beni, 19 fra immobili ed aree esterne, alcuni dei quali attualmente inagibili (come l’ex circolo del forestiero) ma ugualmente inseriti per non perdere il treno, nella confusa valutazione generale della gestione di un patrimonio, quello della Città di Taormina, che prima di essere un valore economico è un bene della comunità. Proprio da questo pensiero sorge spontanea una riflessione: come possiamo impossessarci di qualcosa che non ci appartiene totalmente in senso lato, ma ha un valore ancora più ampio e di cui dovremmo prenderci cura per tramandarlo alle successive generazioni.

Se è vero che non bisogna demonizzare, a priori, il dualismo pubblico-privato è anche vero che appare un errore culturale far passare l’idea che con il denaro si possa comprare tutto anche l’uso di un monumento o un parco pubblico. Anche perché sarebbe contrario alla nostra Costituzione che si fonda sul principio dell’uguaglianza per favorire lo sviluppo della persona umana. Ma in un Comune in dissesto come Taormina, che purtroppo poco o nulla ha investito per tanto tempo sulla valorizzazione dei propri gioielli di famiglia, non si possono fare troppe riflessioni filosofiche e quindi va bene mettere a regime anche il patrimonio artistico-culturale.

E allora ci vorranno 60 mila euro per l’affitto mensile di palazzo Corvaja, mentre 40 mila per l’uso giornaliero “esclusivo” del Parco Trevelyan (escluso l’utilizzo delle torrette storiche) con “Vigilanza del Bene a cura e spese del Comune”, anche se ad oggi l’ente conta pochissime unità in organico di Polizia municipale. Ah già, si può sempre fare ricorso a qualche affidamento esterno. In verità, l’uso esclusivo comporterebbe la chiusura della Villa Comunale per l’intera giornata andando contro anche ai principi del Codice dei Beni culturali, il quale prevede che i siti pubblici si possano affittare ai privati, ma solo “per finalità compatibili con la loro destinazione culturale”: il che sembra non solo vietarne la chiusura, ma anche impedirne usi alquanto bizzarri. L’elemento inaccettabile è pensare di privatizzare un parco, cioè uno spazio pubblico per antonomasia, percepito forse come ancora più libero e “di tutti” rispetto a musei e palazzi. E non basta sottolineare che tutti gli incassi saranno destinati ad interventi al Verde Pubblico sull’intero territorio comunale, vincolandone il 50% ad interventi da realizzare esclusivamente all’interno della Villa Comunale anche per il risanamento delle torrette. Buona idea, ma che a ben riflettere non basta e non è un ragionamento lungimirante, perché il valore di questi luoghi è di gran lunga superiore al “Dio denaro”. E così, eventuali danni al Parco Trevelyan – al netto di ogni polizza e clausula a carico del privato – comporterebbero poi un costo e un danno alla città molto più elevato rispetto al canone d’affitto. Senza contare i tempi lunghi per un ottimale ripristino.

Ma come ormai è storia nell’Italia di oggi, il ruolo del privato è creato e determinato dall’incapacità dei poteri pubblici. E allora aveva già capito tutto Indro Montanelli che in un articolo comparso sul Corriere della Sera del 1966 sosteneva di “resistere ai privati” nella profonda convinzione che il patrimonio culturale non fosse misurabile “sul metro del denaro” perché esso è ciò “che ci qualifica a un rango, del tutto immeritato, di Nazione civile”. Purtroppo anche oggi, nel 2024, bisogna rassegnarsi: la bellezza è ancora per pochi.

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