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Oltre le piazze per salvare le donne: carcere a vita, il resto è fuffa

La Giornata internazionale dedicata alla lotta alla violenza sulle donne ha visto scendere in tante piazze migliaia di persone unite dal senso di indignazione per l’escalation di atti barbari ed efferati che sempre più spesso vengono compiute da uomini che assumono i panni di animali (con tutto il rispetto per gli animali). Chiediamoci, però, cosa resta del 25 novembre e dove porterà questa data, se davvero servirà ad indicare la via maestra per fermare la strage.

In quelle piazze c’era la gente che dice basta a questa sequenza interminabile di violenze ma il paradosso abbastanza imbarazzante è che a solidarizzare con le vittime c’erano anche quelli che potrebbero e dovrebbero risolvere il problema e, invece, se ne lavano le mani o credono di affrontarlo con le mezze misure, con quella modalità “mezzo, mezzo” che non serve a nulla. L’esempio plastico è proprio l’Italia, dove si pensa o ci si illude che possa bastare qualche restrizione in più e il braccialetto elettronico, che è stato già eluso e talvolta spaccato e che, tuttavia, viene contrabbandato come “la panacea dei mali”. Dal Codice Rosso al Ddl Roccella non cambia niente di significativo e purtroppo il fondato timore è che vedremo altre donne soccombere al cospetto della furia brutale di uomini ai quali va il cervello in pappa o che probabilmente non hanno neanche rotelle e si arrogano il diritto di rovinare o peggio strappare la vita alle malcapitate di turno.

Ogni tre giorni, in Italia, una donna è vittima di femminicidio. Nel 2023 sono state 106 quelle uccise, 87 in ambito familiare, 55 per mano del proprio marito o fidanzato. Numeri che mettono i brividi e bastano e avanzano per indicare la strada da seguire, che è quella dell’intransigenza contro chi commette il reato di femminicidio.

La Giornata internazionale contro la violenza sulle donne rischia così di diventare non il propellente di una svolta ma il simbolo di una perenne incompiutezza di questa lotta. Le battaglie bisogna combatterle sul serio, con i fatti e non con le chiacchiere. L’indignazione delle piazze ci sta e deve stimolare chi di competenza a fare di più, molto di più ma sin qui in Italia non si vede nulla di nuovo e di rilevante. Giulia Cecchettin è la vittima di cui si parla in questi giorni su tutti i media, che poi tra qualche giorno archivieranno anche il dramma di questa povera ragazza perché non farà più notizia. Le luci si spegneranno sino a quando non sarà il turno della prossima vittima. E allora non è più il tempo della retorica in una emergenza che viene sempre più avvolta da un mantello insopportabile di ipocrisia.

Sentiamo dire, di fronte, a delitti come quello di Giulia Cecchettin che bisogna accertare “la premeditazione” e se vi sia stata “crudeltà”. Quindi una giovane di 22 anni viene rapita, accoltellata e gettata in un canalone, e non basta per avere contezza della gravita totale della vicenda? Con il “gioco” perverso delle perizie psichiatriche e queste supercazzole giurisprudenziali non si va più da nessuna parte o peggio ancora si gioca con la dignità e il dolore delle famiglie colpite da crimini così atroci. Mettere i cartelli “stop alla violenza sulle donne” e poi limitarsi a una innocua carezza normativa al carnefice è come uccidere una seconda volta le vittime.

Ecco perché se davvero si intende salvare la vita di tante altre donne e fermare la barbarie bisogna andare oltre le proteste di piazza, agire e incidere. E c’è un solo segnale da dare: trovare il coraggio di andare in Parlamento, fare una legge giusta che preveda una pena appropriata e l’unica che può considerarsi tale è il carcere a vita. Niente attenuanti, nessuna pietà e semmai vanno aggiunti i lavori forzati. Tutto il resto vale zero.

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