HomeAperturaIl destino scioccante delle amiche di Emanuela Orlandi

Il destino scioccante delle amiche di Emanuela Orlandi

Si infittisce di nuovi sconvolgenti dettagli il mistero della scomparsa di Emanuela Orlandi. Un approfondimento molto dettagliato sulla vicenda è stato pubblicato da Fabrizio Peronaci sul Corriere della Sera a poche ore dalla riapertura – prevista per il 6 giugno – della discussione sulla Orlandi, ma anche su Mirella Gregori, al Senato, a proposito del varo della Commissione parlamentare d’inchiesta. Emanuela e Mirella sono scomparse a Roma nella primavera del lontano 1983, a 40 giorni di distanza, e sul loro destino non si è mai più saputo nulla. O forse, per altri versi, 40 anni dopo, si sa ormai anche troppo su cosa potrebbe essere accaduto ad entrambe.

La storia scioccante raccontata oggi sul CorSera – edizione Roma – da Peronaci riguarda intanto la sorte toccata alle amiche di Emanuela Orlandi: una è finita in una clinica psichiatrica, l’altra è stata sedata. Un altro compagno, inoltre, è stato minacciato di morte. Anche loro devono essere considerati delle vittime di questa brutta storia, sulla quale sono trascorsi 40 lunghissimi anni e non c’è ancora giustizia, non c’è una verità e non c’è stata neanche un pò di pietà umana.

“Raffaella, compagna di musica all’epoca 19enne – riporta il Corriere della Sera -, raccontò alla stampa quanto le aveva detto Emanuela Orlandi prima di sparire (la proposta di lavoro per la Avon e altro) e da quel momento fu pedinata, minacciata, intimidita da personaggi mai identificati: rimase talmente sotto choc da farsene una malattia per tutta la vita. Oggi, a 59 anni, è ricoverata in una clinica psichiatrica”.

“Un’altra amica, Silvia, compagna di classe al Convitto nazionale, disse a un giornalista che Emanuela le aveva confidato che si sarebbe allontanata da casa «per un po’ di tempo». Una testimonianza delicata, che fa balenare contatti pregressi. Da quel momento Silvia, oggi 55enne, è passata da un trattamento farmacologico all’altro e il cugino denuncia: «Per non farla parlare l’hanno irretita, sedata, annichilita. Non la sento da anni. Potrebbe anche essere morta»”.

“Un terzo ragazzino, Pierluigi, anche lui iscritto al liceo scientifico frequentato da Emanuela, stesso nome (forse non a caso) di quello del primo telefonista che contattò gli Orlandi, fu ripetutamente minacciato di morte. Era venuto a sapere qualcosa? Nel 1987 chiamò in diretta “Telefono giallo” e con voce rotta esclamò: «Se parlo mi ammazzano». Poi trovò riparo all’estero, dove vive tuttora, a 55 anni, con pochissima voglia di parlare dell’evento che gli ha stravolto la vita”.

“La vicenda di Raffaella Monzi, compagna del corso di musica presso il complesso di Sant’Apollinare (ultimo luogo frequentato dalla scomparsa) – riporta Peronaci -, è nota. Emanuela al termine della lezione di canto corale, attorno alle 19 del 22 giugno 1983, raccontò a Raffaella (4 anni più grande, all’epoca abitante con la famiglia in via Panisperna) di aver ricevuto una proposta di lavoro (del tutto inverosimile) per distribuire volantini della ditta di cosmetici Avon, il sabato successivo, in occasione di una (inesistente) sfilata di moda in cambio della cifra (spropositata) di 375 mila lire (erano tutti messaggi in codice, leggi qui). La triste novità oggi, 40 anni dopo, è che quella bella ragazza bionda con i capelli ricci non si è mai ripresa. Alla soglia dei 60 anni, è rinchiusa in una struttura psichiatrica fuori Roma, nei pressi di Subiaco. Fu la mamma a spiegare, in una intervista: «Da quel giorno del 1983 la vita di Raffaella non è stata più la stessa. Eravamo tanto esasperati e spaventati che decidemmo di andare via da Roma e di trasferirci a Bolzano, ma c’erano persone che hanno continuato a controllarci. Raffaella fu seguita da un giovane biondino. Ogni volta ce lo trovavamo davanti e un giorno le disse: “Vieni via con me, lascia i tuoi genitori…””.

“Una situazione angosciante, la sensazione di avere il fiato di qualcuno molto cattivo sul collo… Così prosegue il racconto della signora Monzi, riferendosi agli agganci per strada da parte del “biondino”: «Fu un episodio che ci colpì anche se decidemmo di non darci peso, pensando che fosse uno spasimante. Tornati a Roma, Raffaella mi raccontò che una persona la fotografava per strada. E un giorno ricevetti una telefonata: “Ho visto tua figlia sul treno: è bellissima. La voglio sposare”. Non ho mai saputo chi fosse e come avesse il nostro numero di telefono. Di certo era una persona che la controllava. Per mia figlia è stato un incubo dal quale non si è più ripresa». Raffaella non mise più piede alla scuola di musica “Da Victoria” e al ritorno da Brunico, dove quell’estate per tentare di distrarsi lavorò come baby sitter, si iscrisse al conservatorio di Santa Cecilia. Perché i rapitori la misero nel mirino? L’intento era tenerla in pugno, terrorizzarla per evitare che rivelasse qualcosa? Il dubbio, leggendo i verbali di interrogatorio, viene dal passaggio in cui Raffaella ricorda che Emanuela, oltre alla faccenda della Avon, la disse di aver appuntamento con una persona. Forse il timore del “biondino” (e più ancora dei suoi superiori, veri registi dell’azione) era che la scomparsa avesse confidato a Raffaella dettagli utili all’identificazione?”.

“C’è poi Silvia Vetere, compagna di classe al II liceo scientifico del Convitto nazionale… «Emanuela aveva intenzione di trovarsi un lavoro. Non aveva voglia di studiare e faceva sega a scuola». Le sue dichiarazioni messe a verbale sia nel 1983 (22 luglio) sia nel 2008 (11 novembre, nell’ambito della seconda inchiesta) sono state le uniche in controtendenza rispetto all’immagine “casa e chiesa” resa pubblica dai familiari della “ragazza con la fascetta”. Niente di grave, beninteso. Qualcosa certamente di non disdicevole, comune a milioni di adolescenti: Emanuela era un po’ ribelle e con poca voglia di stare sui libri, cosa d’altronde palesata dalle due materie (latino e francese, con un 4 e un 5) nelle quali era stata rimandata a settembre e dalla sfilza di 6 restanti. Piuttosto, c’è un passaggio dei verbali di Silvia, oggi 55enne, che appare rilevante ai fini di una corretta ricostruzione dell’accaduto: «I professori le chiedevano cosa volesse fare e lei rispondeva che aveva intenzione di cercarsi un lavoro”.

“Ecco, questo non era mai affiorato: una sorta di determinazione a cambiare vita, a rompere le righe. Fu sull’onda di questo stato d’animo che, ingenuamente, cadde nel tranello dell’allontanamento da casa, magari con la promessa che sarebbe tornata presto? Tale scenario è rafforzato da un altro spunto: la frase riferita da Silvia Vetere a un giornalista de L’Unità, che la pubblicò il 13 luglio 1983: «Non mi vedrete per un po’», aveva confidato Emanuela all’amica, a fine maggio. Segno che era stata già agganciata? Che era consapevole di essere stata coinvolta in un “gioco avventuroso”, ma tutto sommato non poi così pericoloso e destinato a durare poco? «Fra il maggio e l’ottobre 2014 avevo cercato Silvia Vetere. Prima all’abitazione del 1983 e poi tramite la sorella, che però mi spiegò come fosse impossibilitata a parlare, perché affetta da seri problemi di salute», ha spiegato Tommaso Nelli nel libro “Atto di dolore”. Addirittura non in grado di esprimersi, insomma: un trauma irreversibile”.

“Sono proprio i «seri problemi di salute» di Silvia, rivisti oggi alla luce della complessità dell’operazione-Orlandi, a gettare ombre angoscianti. Il fatto di essere venuta a conoscenza di retroscena utili a fini investigativi può aver esposto la ragazzina? Per il cugino Massimo Festa, 61 anni (sua nonna materna Anna era la sorella del nonno di Silvia), non v’è ombra di dubbio. «Silvia è stata vittima di un ulteriore sequestro, è stata portata in strutture psichiatriche per impedirle di ripetere quel che sapeva su Emanuela Orlandi. Quel che le era stato confidato era scomodo. Per questo è stata prelevata a più riprese, bombardata di farmaci, narcotizzata, annichilita nel corpo e nella psiche, in una struttura per tossicodipendenti, nella fascia a nord di Roma, e in centri specializzati per pazienti psichiatrici. Quel 13 luglio 1983, tramite l’articolo su L’Unità, cominciò a emergere che era in possesso di informazioni delicate, e successivamente, negli interrogatori, potrebbe essere stata intimidita. Fatto è che non si è mai più ripresa. Anche grazie al ruolo avuto da una nostra parente, non ho più avuto modo di incontrare Silvia da molti anni. Ora potrebbe anche essere morta». Un racconto sconvolgente, da delineare meglio, ma ancorato ad alcuni dati di fatto: sarà oggetto delle prossime indagini sul caso Orlandi? Resta soltanto una foto, di Silvia la compagna di classe: un caschetto di capelli castani (inquadrati dal cerchietto rosso) nella puntata di Tandem, sulla Rai, alla quale tutta la classe era stata invitata il 20 maggio 1983. In un altro fotogramma c’è Emanuela, accanto alla conduttrice”.

“E poi c’è la terza storia, quella di Pierluigi Magnesio, pure lui 55enne, compagno di classe di Emanuela (e di Silvia), non è mai stata al centro dell’attenzione mediatica ma è in realtà importante, contiene indizi di peso, a lungo valutati dagli inquirenti. Accadde questo. A Pierluigi, anche lui cittadino vaticano, figlio di un elettricista in servizio presso la Santa Sede, gli investigatori pensarono subito per una semplice associazione: così si era autonominato il primo telefonista, il “Pierluigi” con la voce posata e senza inflessioni (per questo ribattezzato dalla famiglia “il pariolino”) che chiamò a casa Orlandi tre giorni dopo il mancato ritorno a casa, la cui voce non fu però registrata in quanto papà Ercole non aveva ancora approntato una segreteria telefonica. Fu il sostituto procuratore generale Giovanni Malerba, nella sua requisitoria dell’agosto 1997 a chiusura dell’inchiesta iniziata ben 14 anni prima, a dare rilievo al compagno di classe, fino al punto da ipotizzare che fosse stato lui – sotto pressione o minaccia – il primo telefonista: «Non sembra azzardata l’ipotesi che il ‘Pierluigi’ delle prime tre telefonate possa identificarsi nel predetto Magnesio Pierluigi; l’età del giovane al momento del fatto induce senz’altro a escludere il suo consapevole e volontario coinvolgimento nel sequestro; e tuttavia, ove il ‘telefonista’ Pierluigi si identificasse nel Magnesio, dovrebbe inferirsi che questi fosse stato contattato dai sequestratori e indotto, verosimilmente con minacce, a effettuare le prime telefonate in funzione di depistaggio. Ove così fosse, ancora oggi il Magnesio potrebbe fornire utilissimi elementi per l’identificazione dei sequestratori. Appare pertanto utile, se non necessario, approfondire l’indagine sul punto”.

“Auspicio – conclude Peronaci – rimasto lettera morta: nell’inchiesta successiva (2008-2015) gli investigatori saranno assorbiti dalle verifiche sul ruolo avuto dalla banda della Magliana (qui “Aliz”, il messaggio in codice che dimostra il coinvolgimento del boss De Pedis) e dal telefonista reo confesso, quel Marco Accetti che consegnerà il flauto riconosciuto dalla famiglia come quello di Emanuela. Tornando a Magnesio, lo si può quindi considerare testimone e al tempo stesso vittima dei fatti? Questo fu lo scenario tratteggiato nelle primissime indagini. Ipotesi rafforzata, peraltro, da quanto successo in diretta tv il 27 ottobre 1987, quando a “Telefono giallo” arrivò una telefonata: «Buona sera, sono Pierluigi. Se parlo, mi ammazzano». Gelo in studio. Corrado Augias sulle spine. Si trattava di Magnesio? Secondo i successivi approfondimenti della Procura di Roma sì, era proprio l’amico di Emanuela. Nuove e angoscianti domande: perché il compagno di scuola finì in pericolo? Che genere di intimidazioni subì e da chi? E ancora: il suo trasferimento all’estero, in un Paese non rivelato, ha avuto a che fare con l’essere stato “intercettato” dal sequestro Orlandi?”.

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