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Bossetti a “Belve”: ascolti top, format flop: Fagnani ci prova ma Leosini è inarrivabile

L’intervista di Francesca Fagnani a Massimo Bossetti, detenuto nel carcere di Bollate per scontare l’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, è l’ennesima cartina di tornasole della crisi d’identità, probabilmente irreversibile, dell’informazione in Italia. Il giornalismo, quello vero, si è fermato a 20 anni fa, ed eccone un’ulteriore riprova.

Fagnani è brava, forse è anche uno dei pochi volti nuovi e frizzanti della tv attuale che mostra sempre gli stessi professori senza cattedra e una lunga serie di mestieranti che si auto-convincono di essere personaggi. Lei fa quel che può ma la linea di confine che divide i bravi dai top è sempre esistita e sempre ci sarà.

Il programma sembra una riedizione di “Storie Maledette”, format inarrivabile che per tanti anni è stato diretto e condotto da Franca Leosini. E qui – con tutto il rispetto per la brava Francesca Fagnani, la Leosini è tutta un’altra storia. Caratura superiore a tutti gli altri e le altre che hanno provato a cimentarsi in questo campo minato del giornalismo. In gergo una come Franca Lando, in Leosini, la si definisce una fuoriclasse.

Lo spin off di “Belve” ha intervistato Bossetti e diamo assolutamente per buono che ci possa anche stare l’intervista, come in passato la Leosini faceva con i vari condannati per crimini efferati. Dov’è la differenza, si dirà?

Quarto grado di giudizio: è quello a cui è stato sottoposto ieri sera Massimo Bossetti al programma di Rai2, Belve crime. Settantaquattro minuti di faccia a faccia dal carcere di Bollate, dove l’uomo è rinchiuso da undici anni per l’omicidio di Yara Gambirasio, la 13enne scomparsa il 26 novembre 2010 e ritrovata assassinata il 26 febbraio 2011. Ed è chiaro che prima di tutto debba venire l’infinita tristezza per l’orrenda fine che ha fatto questa ragazzina, strappata alla vita senza un perché, nel modo più barbaro. Da lì bisognava partire.

Il muratore di Mapello è stato sottoposto ad un “interrogatorio” dalla conduttrice, che si è messa sul piano inclinato della parte di un pubblico ministero anziché su quello della giornalista brillante che, per altro, ha tradizionalmente fatto vedere di essere, con una certa abilità nel format originale di “Belve”.

Inevitabile che Bossetti sia andato in difficoltà e che si sia rifugiato, a sua volta, sulla dimensione della vittima che è stata incastrata. E allora la domanda che rende il senso di tutto è una: in un Paese dove si riaprono le indagini di Garlasco e ancora adesso non si ha idea del dove si andrà a parare in questa nuova fase, c’è bisogno di far passare il messaggio che magari potrebbe esserci un altro innocente dietro le sbarre? I tre gradi di giudizio hanno sancito la colpevolezza di Bossetti con elementi pesanti a suo carico. Il verdetto è stato sancito anche per Alberto Stasi, ma su Garlasco si navigava nell’alveo di un processo indiziario. Sul delitto di Chiara Poggi non c’era la certezza della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio come, ad esempio, non sussisteva nel giallo di Via Poma quando venne processato e poi assolto il fidanzato di Simonetta Cesaroni.

Bossetti dice che non ha commesso il delitto, poi nell’intervista si parla della traccia di Ignoto 1, della vicenda personale emersa nel processo, e cioè che il suo padre biologico non era quello che lo ha cresciuto e che sua moglie lo avrebbe tradito, ma alla fine della fiera cosa resta davvero di questa intervista? Il senso della pietas che cerca invano Bossetti, quello che la Fagnani gli nega nel suo “interrogatorio mediatico”, in una intervista dove si arriva persino a parlare di elementi di dubbio interesse come il perché il condannato si vada a depilare nelle parti intime.

Alla Rai rimangono gli ascolti e sono buoni: 1.570.000 di telespettatori, pari al 12,4% di share. Lo spin off di “Belve” quindi è promosso a pieni voti. Oppure, nell’analisi a 360 gradi delle cose, si può dire che lo share è top ma il format è un flop?

Se si vuole porre il metro di paragone con il programma “Storie Maledette” di Franca Leosini la bocciatura è senza appello anche perché lì il sottopancia psicologico del vecchio programma di Rai3, lo slogan che caratterizzava in termini perfetti e convincenti quel format era: “Capire, dubitare, raccontare”. Qui invece cosa si fa? Si riprocessa? Si ricondanna o magari si fa pensare che si potrebbe assolvere?

Leonini era tosta, indagava con la curiosità e li incalzava ma sapendo dove fermarsi, teneva le distanze ma, in definitiva, concedeva l’onore umano delle armi ai condannati. “Non professionisti del crimine, ma persone piombate nel baratro di una maledetta storia”, li definiva. Senza lasciare, tuttavia, loro il modo di spostare la discussione sul piano del facile vittimismo che genera dubbi nel telespettatore ma su quello della ineludibile presa di coscienza di ciò che di grave è accaduto. Perché la pietas è sempre un’arma a doppio taglio.

Difficile emulare quel profilo da vera regina dell’inchiesta di Franca Lesini, che amava sottolineare: “Il grande romanzo della vita scorre nel noir, che racchiude tutte le passioni umane: i rancori, le gelosie, le vendette, gli amori. Ma la verità non ha un tempo, più verità non sono mai la verità. La verità è solo una”. A volte si può e magari si deve provare ad indagarla ad oltranza ma nella quasi totalità dei casi la verità ha un unico volto. E c’è poco o nulla da interpretare.

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